lunedì 26 marzo 2007

Diario di una prefica.

Circa tredici giorni di presunto limbo.
Si', mi sono convinta che, dato che ho salutato una parte importante del mio mondo barcellonse che e' partita alla volta della sua vita, la mia vita ha subito un ammanco.
E' tristemente vero che la bellezza e' negli occhi di chi guarda, perche' io e la mia ottusita' siamo uscite, ci siamo dato al comune intrattenersi, ma le cose vissute hanno un gusto diverso. Non e' piu' la stessa cosa.
E' come viaggiare per mesi, ma con la consapevolezza di avee una casa e delle persone dalle quali tornare. Una sensazione di perfetto incastro tra il te stesso iperattivo e vichingo- alla scoperta di nuove percezini del mondo- e il te stesso intimo e ricettivo- ovvero l'apparato digerente e pensante di cio' che ti accade.
Potersi sedere su di un divano e condividere le proprie impressioni, i propri tentativi di contatto con questa cultura, godendo della comodita' che il parlare con una persona a te affine comporta. Ovvero: il non doversi dilungare in spiegazioni a te ovvie e accontentarsi con serenita' di un cenno della testa per sapere che ci si e' capiti. Bene.
Ora, questo servizio non c'e' piu'.
Da pigra disfattista ho gia' deciso che niente sara' mai piu' come prima.
E cosi' come odio quando gli altri si rigirano nel loro dolore invocando distrutti il mai piu', quando arriva il mio momento mi tratto invece come una quarantenne a dieta.
Dopo aver portato il lutto per tre giorni, dunque, ho provato-con parsimonia- ad uscire di nuovo, ma il disgusto nel vedere che il mondo si divertiva noncurante delle mie tragedie mi ha potrato a rinchiudermi un altro paio di giorni in casa.
Ho vagato per le strade di questa citta', notando con invidia i gruppi di giovani che cianciavano spensierati, rimembrando con gusto quando lo facevo anche io.
Uno di quei fermo-immagine sfumati da cartone giapponese.
Insomma, debbo ricominciare.
Sono talmente svuotata -pobrecita!-che non ho nemmeno la forza di farmi promesse di grandi rivoluzioni, come da copione.
Purtroppo, sento che potrei provare con calma, per una volta, la prima, forse.
Senza arraffare con compulsivita' ogni miraggio.
Pruvegna.

venerdì 23 marzo 2007

Achso sprach Pamuk

Noi dovevamo ricercare lo strano e il meraviglioso, come nel mio racconto; si', sembrava fosse quello l'unico rimedio che potevamo adottare contro la noia disgustosa del mondo; poiche' era di cio' consapevole fin da quegli anni dell'infanzia e della scuola in cui non facevano che ripetersi le stesse identiche cose, non l'aveva mai sfiorato l'idea di rinchiudersi tra quattro mura; per tale ragione aveva passato la vita intera nei viaggi, inseguendo racconti nelle strade infinite. Tuttavia lo strano e il meraviglioso non dovevamo ricercarlo nel mondo, e non dentro di noi! Cercare quanto era in noi, spingere il pensiero cosi' in alto sopra di noi ci avrebbe reso infelici. Ecco quel che era capitato alle persone del mio racconto: per questo i personaggi, i protagonisti, gli eroi non si piegano in alcun modo ad essere se stessi, e ambiscono eternamente a essere un altro.

[Orhan Pamuk, Il castello bianco]

Pigrizia, retorica, e melanconia.
Avevo bisogno di un premio Nobel per fare outing.

domenica 11 marzo 2007

Pienso que

Un'altra domenica lavorativa.
Fuori,
il sole.
Io,
dentro.
Le erbette provenzali del mio pranzo sono artisticamente dispiegate tra le mie gengive e i miei denti.
Un sorriso boschivo.

Perche' la gente prenota auto di domenica?
Dio non l'aveva considerato giorno festivo?
E se siamo cosi' visceralmente cattolici in Italia, perche' allora ci preoccupiamo del noleggio di autovetture nel giorno di Nostro Signore?
Mah.
Al solito, mi sono impelagata in frasi senza senso.

Vado a comprare La Repubblica.

lunedì 5 marzo 2007

1: Big Fish

Un gesto abituale. Rituale personale. Banale.
Uno sbuffo che si arrotola su sé stesso nello scuro della notte. Una tonalità di grigio soddisfacente e piena che contrasta con il blu scuro della notte. Ovunque.
L’odore confortante e avvolgente.
Il rumore della brace che divora la cartina, lentamente, come un mostro che avanza calmo e costante, sicuro della sua vittoria. Fastidioso.
Secondo tiro.
Meglio tenere il conto, mentalmente.
C’è chi è fiscale sui tre tiri.
Il fumo è al sicuro nei polmoni, trattenerlo, espirarlo, con naturalezza, chèrie.
Zona rossa.
Gli occhi degli astanti smettono di fingere di essere presi dai particolari della scenografia del momento. Iniziano a fissare la mano. Educatamente impazienti. Trattenuti.
Terzo tiro.Gli occhi coreograficamente socchiusi.
La mano si muove e ne incontra un’altra, dita in attesa.
Una voluta sensazione di rilassatezza.
Ecco,
ci siamo.
Let’s go.

Interno, un locale che potrebbe essere ovunque, tanto le persone che lo popolano sono poco caratteristiche di un modo di vivere, poco unite nel voler ottenere qualcosa. Solo corpi che si agitano a tempo di musica. Labbra che si tendono su denti e gengive. Mani che si alzano e si abbassano, giocano e si prendono gioco di mondi lontani. Tessuti che avvolgono corpi, si sommano, si accumulano, barattati per parole che non vengono dette. Un divertimento fine a se stesso.

I suoi occhi registrano, inquadrano. La sua bocca si colora di una risata amara e beffarda. Una intima superiorità la separa dall’essere solo qualcuno. Si dissocia.
Se guardate bene è a bordo pista. Lì, alle sue spalle il bancone del bar, gente in attesa di bere sé stessa – il beverone della personalità (ed è solo birra, people, luppolo, cereali fermentati, malto, echi germanici e rurali, una rudezza che vuole essere scordata).
Sa di essere presuntuosa, al sicuro di una corazza psicotropa che nessuno dei presenti può scalfire.
E i suoi occhi si cibano dello spettacolo grottesco degli esseri umani.

-"Big Fish, l’avete mai visto?Tim Burton, ha girato anche Nightmare before Christmas, uh, una volta sono riuscita a riassumerlo in poche parole. Comunque, in questo film c’è un circo, Danny de Vito è una sorta di spietato capocomico. La luce, la luce del circo è magnifica, rossastra-arancione, intima e allegra allo stesso tempo, è difficile spiegarla. E’ equilibrata, non è il rosso invadente che associ al sanguigno al quartiere rossi di Amsterdam…mai stata peraltro. Ora, qua, su questa pista, c’è la stessa luce. Una sorta di gazebo a righe bianche e rosse è calato sopra la gente, e tutti diventano personaggi, prendono in prestito scopi e caratteristiche da persone immaginarie. Mutano, diventano parte di un disegno impostato, libero ma allo stesso tempo costretto nei confini del fantastico.
Là, la ragazza tutta vestita di nero, è diventata un topo, sta scappando dalla sua amica vestita di grigio, credo sia il gatto. Quel ragazzo dietro di loro è un burattino, si muove legnoso, sembra che qualcuno stia tirando le sue braccia. Sembra perso, solo.
Un derviscio si dà alla sua arte, estatico, graficamente invidiabile, con la sua gamba rotonda.
La massa non è più tale.
Sembrano un insieme di persone che celebrano lo stare insieme. Oh, un suonatore di tromba. Sorride ad un violinista distante. Chissà se le loro note si incontreranno. Mah. Mangiafuoco. Un gigante capelluto che tenta di scuotersi in parallelo al ritmo.
Battere
e levare.
Piroette, salti. Coreografie estemporanee. Assorbo visivamente lo scorrere della vita degli altri.
Holy shit.
Magari c’è qualcuno per cui questa serata avrà un significato, mi spiego in un ipotetico calendario di eventi importanti che modellano la vita reale di una persona quindi non i numeri sequenziali sui fogli, gli eventi che vengono ricordati e che sono sempre l’inizio di un nuovo segmento di esistenza. Magari per qualcuno non sarà solo una serata in transito. Tubolare. Presente "colazione da Tiffany", il libro però? Lei scrive "in transito" sulla buchetta della posta. Non si può mai sapere. Perché ho associato il bagno-sanitario- verde acqua di Nizza?"-.

Intenso. Lungo.
Si sposta, scorta un flusso di parole che le si accavallano in testa. Le porta in giro per il locale. Fa loro significare in libertà quello che vede.
Un tenero brainstorming.
Imbocca un tunnel che la guida sapientemente fuori.
Fschuuuuuuuuuu.
Luce, impatto, freschezza.
Here she is.
Esterno. Un ponte. Dell’acqua scorre quieta sotto la tensione delle assi di legno. I gomiti oppongono una ringhiera di ferro, gli alberi calmano i suoi occhi.
Verde.
L’eco di musica di un altro, più affine ma meno fine sfida i rumori della notte.
Batte un palmo sulla balaustra, così, per provare a se stessa che la mano rimbalza. La mette in tasca, poi.
Non si volta, preferisce ignorare.
E se ne va.
E così come è iniziata,
questa
storia
finisce.



[di terre nordiche, maggio 2005]

domenica 4 marzo 2007

Twenty minuti to go.

Naaaaaa

Falso allarme.
Vado a cambiarmi.

Trenta minuts to go.

Rapida incursione in Patria.
Lo zaino è pronto, giace tramortito dal suo ripieno in camera mia.
Il bagaglio a mano è miracolosamente chiuso.
Tra trenta minuti
a partire da ora
ri-
parto.
Io sono ancora in jeans e maglietta.
Con le pantofole di lana cotta.
E sono quasi più spaventata della prima volta.
Ho visto facce familiari, compiuto i soliti rituali collettivi, sanato ferite annose e purulente, condiviso il racconto dei miei giorni, ballato, cantato, sorriso.
Eppure.